Abisso Gortani – Complesso del Col delle Erbe
2014: 20 anni dalle prime esplorazioni ungheresi nel Gortani.
Leo ci avvisa, tramite mail, della loro intenzione di organizzare un campo interno in Gortani per l’occasione. Obbiettivi della spedizione saranno alcune risalite e traversi nelle zone sopra il sifone, che sono zone consigliabili solo con un invernale, e alcuni punti domanda rimasti in sospeso da quasi 10 anni nelle zone attorno al campo di x-point.
Viste le condizioni meteo, e la pericolosità di valanghe della zona in cui si trova l’ingresso Ungherese, il Magyar Barlang, optano, previa autorizzazione da parte di Rocco e Lollo, di entrare passando per l’abisso Rolo, che si apre in parete sul Bila Pec, poco distante dalle piste e in una zona più sicura.
Lunedi alla visita di controllo della gamba, i raggi decretano che posso cominciare gradualmente a riprendere a fare attività: quale modo migliore se non il fondo del Gortani?
Tra varie vicissitudini a causa di incidenti d’auto e metereopatie, ci ritoviamo in due: Giusto ed io.
Ritrovo alle 7 a Trieste e poi via verso Sella Nevea. Ai lati della strada gli alti muri fanno presagire una notevole quantità di neve, oltre 6 metri al rifugio Gilberti, dice l’insegna luminosa all’inizio della strada che porta al paese. Arrivati al piazzale dell’ex funivia, ci informiamo con gli operatori della Promotour e gli agenti di polizia sulle condizioni neve, avvisiamo delle nostre intenzioni e degli orari previsti per l’uscita, in modo che, se necessario provocare distacchi di valanghe controllati, non ce le tirino in testa all’uscita. Tutto a posto, ma gli impianti sono ancora chiusi per una valanga caduta nella notte sulla pista, di salire a piedi non abbiamo nessuna voglia, aspettiamo con un caffè al bar. Brevi preparativi e poi via con la prima cabinovia, un saluto al rifugio è d’obbligo, ma i gestori sono a valle a fare la spesa, pazienza. Partiamo verso la parete, nevica veramente forte, in poco tempo siamo alla base, la corda che scende dall’ingresso e incastrata sotto qualche metro di neve, e dopo aver tentato con la pala di scavare quanto più possibile, decidiamo di tagliarla. Saliamo solo con l’imbrago addosso al vestiario usato per l’avvicinamento, di sopra c’è ampio spazio per cambiarsi comodamante al riparo dalla neve. Salgo per primo, fatti pochi metri di corda, vedo una nuvola bianca scivolare a gran velocità giù dalla cima del Bila Pec, urlo a Giusto di stare al riparo e mi faccio quanto più piccolo posso, spalmato sulla parete; un’ondata di neve mi investe, pochi secondi e sono bagnato fradicio, meglio sbrigarsi a salire. Arriviamo all’interno dell’antro iniziale e troviamo tutti gli zaini dei ragazzi ungheresi. Ci cambiamo con molta calma, cerchiamo di appendere i vestiti bagnati in zona protetta, in modo da farli asciugare per la nostra uscita. Visto che incredibilmente il cellulare prende anche qui, mandiamo un messaggio di conforto alle rispettive compagne.
Al lato della caverna iniziale, proprio sotto la corda che porta alla parete, un meandro intasato per metà dalla neve, lascia fuoriuscire un alito caldo (certo, rispetto alla temperatura esterna!!!). Un paio di scomodi passaggi portano al primo salto della cavità, altro meandro fastidioso, alleggerito di alcune curve per permettere il passaggio, e parte un secondo pozzo di una quarantina di metri. Da qui un ulteriore meandro con uscita alquanto aerea e disagevole porta alla cima del pozzo da 180. Meandro e pozzo da 50 e si arriva in gallerie che a breve portano al campo italiano. Da qui si prende la corda in risalita, dall’altra parte del pozzo che porta al fondo. Qui si erano fermate le esplorazioni ungheresi nel 2005. Saliamo 10 metri, alcune condotte semi-intasate da ghiaie obbligano a strisciare per diverse decine di metri. L’ambiente si allarga e diventa pozzo. Sappiamo, dalle informazioni di Zsolt, uscito domenica, che qui sotto c’è un lago in cui è stata allestita una tirolese, che però obbliga ad una fatica mostruosa e a un rischio di bagno. Per questo motivo abbiamo portato con noi attacchi e trapano, la corda l’abbiamo presa dal campo italiano, Giusto arma il traverso e comincia a scendere dall’altra parte, arriva su un terrazzo ma la corda non basta. Torno nuovamente a strisciare nelle condotte verso il campo alla ricerca di uno spezzone da poter utilizzare, ne trovo uno con due lesioni che prontamente isolo. Alcuni problemi con l’impianto luce mi obbligano ad una sosta forzata, dopo svariate bestemmie e imprecazioni, apprendo la tecnica segreta per farlo funzionare correttamente, che mi servirà fino all’uscita di qui a due giorni: sberloni al porta batterie. Torno verso Giusto corda alla mano. Dopo avergliela consegnata, di modo che possa riprendere l’armo, raccolgo i sacchi e lo seguo. Una condotta completamente scavata tra ghiaie e fango conduce ad alcuni saltini, dopo un P17 arriviamo in corrispondenza di una corda parecchio tirata, praticamente un traverso verticale su una china piena di pietre instabili. Non scaricare e quasi impossibile, dopo averne urtato e fatta rotolare qualcuna, notiamo all’improvviso accendersi una ad una alcune luci sotto di noi: è il campo. Con passi felpati e sacco in spalla scendiamo delicatamente (certo che se uno decide di fare un campo sotto una corda di discesa, almeno dovrebbe scaricare quello che sta in bilico sopra di lui, mah!). Arriviamo al campo e salutiamo, sono in sette a riposare qui, gli altri sono in punta. Questi che sono rimasti si stanno preparando per uscire, perché altre squadre dovrebbero entrare tra domani e dopodomani. Ci posizioniamo in uno spiazzo, fortunatamente lontano dalla verticale di discesa, cuciniamo la solita minestra liofilizzata, qualche nocciola e un pezzo di cioccolata e poi via nei sacchi a pelo.
La notte passa veloce, e quando mi sveglio sono già passate 12 ore (sono sempre più convinto che in grotta si riesca a riposare meglio, ma sembra un discorso che vale solo per me). Belli freschi facciamo colazione, e quando si sveglia anche Leo, tornato dalla punta mentre noi dormivamo, discutiamo sul procedere della giornata. Alcune interessanti risalite attendono, poco sopra il sifone terminale, e, sebbene Leo abbia riposato solo 4-5 ore, si offre di venire con noi. Dal campo, allestito nella sala denominata Humbolt, si prendono alcune condotte basse, che portano a una successione di gallerie sfondate da crolli, in cui ci sono diversi passaggi in frana e ambienti ristretti. Ad un bivio tra due gallerie ci teniamo a sinistra, sebbene dopo qualche centinaio di metri si ricongiungano, dalla parte opposta alla direzione da noi presa si trova una fessura di oltre 40 metri, definita parecchio ostica. Un ulteriore bivio divide la via tra il pozzo da 140, e la galleria da 500 metri che porta al campo di x-point. Procediamo per basse gallerie fino al pozzone. Cominciamo la discesa in questo fantastico baratro di dimensioni spropositate, atterriamo sul fondo, dal quale, parte un meandro di 300 metri che si connette direttamente al “Grande Meandro”, il famoso meandro da 1 km che porta al fondo dell’abisso Gortani. Procediamo spediti in questo fantastico intrico di curve, camminando per quasi tutto il tempo alla sua base, fuorché alcuni passaggi aerei, all’esclusivo scopo di evitare le zone con acqua profonda, e quindi il bagno! Giusto se la passa peggio, non essendo fornito di stivali ma pedule, è obbligato ad arrampicare a mezzo metro d’altezza anche dove noi sguazziamo comodamente sul fondo. Verso la fine il soffitto si abbassa progressivamente, portando alla vista la galleria che ha originato il meandro, un tutto tondo con diametro superiore ai 5 metri. Facciamo una deviazione in una galleria laterale, dove ci dedichiamo ad una piccola pausa per rifocillarci. Tornati al meandro, lasciamo tutto l’occorrente per la risalita sul posto dove la effettueremo, e scendiamo gli ultimi salti all’esclusivo scopo di visitare il sifone terminale. Faccio finta di non vedere gli armi che sono stati usati per la discesa, probabilmente già vecchi quando messi dai primi esploratori sul finire degli anni ’60, e mi chiedo visto, che attacchi e trapano non mancano, perché sia così diffusa l’usanza, e cito testuali parole: “Se ga tegnu fin deso….”. Per strada troviamo la scritta a vernice dei primi a giungere quasi fin sul fondo, 27 dicembre 1968, e il pensiero non può che non andare ad immaginare come poteva essere arrivare ad una tale profondità, con le scale, attraverso meandri e passaggi malagevoli, vestiti con maglioni di lana e tute di cotone, con attese stratosferiche sui pozzi, ad aspettare il ritorno della squadra di punta, brr, vien freddo solo a pensarci, questi si che erano pazzi! Foto di rito, una chitarra mignon firmata “Icaro 1981” lasciata su di un ripiano attira la nostra curiosità. Torniamo verso la risalita, sui pozzi incontriamo i segni della piena, bombole dei sub che tentarono il sifone, incastrate a 30 metri di altezza, non deve essere bello trovarsi in questi luoghi d’estate. Arrivati sul posto cominciamo a prepararci, chi di noi andrà su? Quando scopriamo che bisogna arrampicare con il Ryobi (trapano a motore dal notevole peso ed ingombro), ci tiriamo subito indietro. Combattiamo una battaglia persa in partenza con Leo, informandolo scherzosamente che esistono ormai batterie ultraleggere e trapani di dimensioni accettabili, ma si sa che agli ungheresi piace il gioco duro, ed è già partito. Lo convinciamo dopo 5 metri a piantare un fix di sicura, pianta di suo un altro subito dopo per alzarsi e prende una cengia, da li traversa 20 metri e sparisce dalla nostra vista, sentiamo in lontananza il trapano lavorare e la corda sparire verso il buio. Dopo un’ora di questo gioco “senti trapano-dai corda”, arriva in cima, prepara un armo e torna sui suoi passi. Purtroppo non c’è proprio niente di interessante, è arrivato ad un soffitto dove una finestra ricadeva subito sopra al sifone, nulla di fatto. Sistemiamo il materiale, che lasceremo qua per la prossima squadra (ci sono ancora altre interessanti risalite in zona), e ci incamminiamo verso il campo. Una pausa per bere qualcosa di caldo sotto al 140, e poi spediti fino ad Humbolt. Ci sistemiamo per la notte, più stretti della precedente, perché nel frattempo sono arrivate forze fresche e siamo quasi una ventina al campo. Dopo aver mangiato qualcosa, ci posizioniamo nei nostri sacchi a pelo. Fissando il soffitto della sala, cercando di prendere sonno, mentre ripenso al fantastico giro a cui ho potuto partecipare, ad un tratto, pare di cominciare a vedere delle nuvole, sembra di stare in una grotta a cielo aperto, in cui un apertura sul soffitto lascia intravedere il cielo notturno costellato da nuvole illuminate dalla luna. Dopo aver escluso la possibilità di allucinazioni dovute a minestre scadute, ed aver verificato che anche Giusto ha la stessa “visione”, scopriamo che a creare questo incredibile effetto sono altri speleo ungheresi che stanno raggiungendo il campo, che illuminando il soffitto della sala, calandosi dall’alto, creano questi stranissimi giochi di luci ed ombre. Prendiamo sonno, e quando ci svegliamo è già ora di preparasi per uscire, se vogliamo farlo prima della chiusura delle piste, evitando cosi anche eventuali “valanghe programmate” da parte degli operatori della Promotour. Un’abbondante colazione, e partiamo spediti verso l’uscita, tutti e due soffriamo parecchiio la sete, e dobbiamo perciò fermarci più volte a dissetarci; sarà colpa della minestra, o dei sali caldi prima di partire? Sul 180 faccio parecchia fatica, d’altra parte la muscolatura della gamba non è ancora in una buona forma, anche se fino ad adesso non mi aveva dato alcun fastidio o segno di cedimento. Spingo cercando di ritmare le pedalate e controllando il respiro, siamo quasi fuori. Sulla testa del pozzo incontriamo un altro gruppo di 3 ungheresi che scendono per raggiungere i loro compagni. Ci fermiamo alcuni minuti a salutarci e parlare, descrivendogli la strada da prendere, e poi via verso l’uscita, 2 pozzi e 2 meandri percorsi da una corrente d’aria fortissima e siamo all’ingresso (o all’uscita?).
Ci cambiamo con la calma, siamo usciti nei tempi previsti e raggiungeremo valle molto prima del tramonto. Con gli sci Giusto arriva in pochi minuti, per me ce ne vorranno una trentina per raggiungerlo. Per mia sfortuna, avendo trovato gli scarponi congelati e per cui durissimi, nella discesa mi provoco due stigmate ai piedi, arrivo cosi a valle saltellando sulle ciaspe. Raggiunto il Patrol, prego che Giusto, rintanato in bar funivia, ponga fine alle mie sofferenze aprendomi la macchina, dove recupero le scarpe di ricambio. Scendiamo a Resia, ma niente pollo questa volta, siamo usciti troppo presto, ci dedichiamo così al succo di luppolo, che tanto si era fatto sognare nelle notti passate in grotta.
Lasciamo la grotta con il solito proposito di tornare, magari in compagnia di nuovi “volontari”, o magari solo per un giro in una grotta bellissima e pregna di storia.
circa 10 anni fa
FIGO ! Me sembrava de esser là!
Grazie Seba ! Bel racconto
(Ma quanti xe sti ungheresi?)