Origine delle pinete carsiche
Sul nostro territorio carsico ogni impianto boschivo, i cui benefici attualmente possiamo godere, non è semplicemente frutto di equilibrio naturale, ma è il risultato di anni di pazienti e tenaci esperimenti e ricerche e di ripetute ed estenuanti fatiche, come pure di notevoli costi economici.
Per capire il valore dei nostri boschi è bene sintetizzare il modo nel quale, nel secolo scorso e all’inizio di questo, essi sono stati creati. Nella prima metà dell’Ottocento, il Carso triestino era una distesa di pietra, così diventato in seguito a pascoli e a disboscamenti incontrollati. Il rimboschimento fu deciso per finalità di miglioramento, sì climatico, ma soprattutto di produttività dei terreni.
Nel 1842 iniziarono le prime colture forestali, tendenti a reimpiantare le specie originarie indigene: si potevano conoscere grazie alle descrizioni tratte da testi antichi e ad alcuni parchi privati ancora integri.
Esse, però, non l’effetto sperato, in quanto i semi germogliarono in minima quantità e le pianticelle soccombettero alla siccità e alle bufere invernali.
Fu istituita una speciale Commissione Municipale con a capo l’ispettore forestale di Gorizia, Giuseppe Koller, che fece rimboscare, nel 1859, due appezzamenti di terreno. Furono anche costruiti un semenzario e un vivaio forestale.
Si dimostrò che il pino nero (Pinus nigra) , pianta robusta amante dei terreni secchi e calcarei, era la più adatta alle condizioni del terreno e del clima e che ogni attività di rimboschimento doveva essere finalizzata soprattutto alla costruzione di pinete, con la funzione di preparare il terreno all’attecchimento delle latifoglie indigene.
Ci fu nel 1865 un altro tentativo di promuovere il rimboschimento, convincendo i “villici” a istituire piccoli vivai e semenzai anche mediante sovvenzioni in denaro.
Non essendo stato nel 1866 approvato dal Governo il disegno di legge sul rimboschimento, nel 1870 il Consiglio Comunale ne cedette alla Società Agraria la manutenzione e nacque il “Comitato amministrativo dell’imboschimento del Carso” con a capo il Presidente della Società stessa. Il Comitato piantò 1 milione di piantine in 110 ettari di terreno, creò 18 boschi comunali, cui vennero dati dei nomi di personaggi che avevano contribuito al rimboschimento. Tali nomi vennero incisi su cippi recanti lo stemma alabardato, l’anno in cui era iniziata la piantagione, il numero romano rappresentante la serie e la scritta B. C. che significa Bosco Comunale.
Nel 1882, approvato finalmente dal Governo il disegno di legge, si costituì la “Commissione del rimboschimento del Carso” che, dopo aver compilato un catasto dei fondi boschivi, pascolivi, improduttivi, e dopo aver acquistato alcuni appezzamenti da privati da unire ai Fondi Comunali e a quelli del Fondo d’imboschimento, potenziò l’orto di Basovizza, costruì un piantonaio sempre a Basovizza e un semenzaio a Barcola nonché due orti temporanei a Santa Croce, dai quali furono tratte piante da consegnare anche ai privati che volevano rimboschire le loro tenute.
La Commissione rimase in attività per 30 anni e sorsero 873 ettari di bosco impiegando quasi 15 milioni di piantine e 6 tonnellate di semi. Furono eretti 33 km di muretti a secco e costruiti 17 km di strade, tra cui la “Stefania” poi chiamata “Napoleonica”. Il lavoro fatto era talmente ammirevole, sia per la robustezza del bosco che per la ricchezza del sottobosco pur ancora molto giovane e maggiormente, diremmo noi, per il miracolo compiuto di far nascere l’inizio di un bosco dalla nuda pietra, che esperti venivano da tutta l’Europa ad impararne le tecniche e che in un’Esposizione a Parigi, nel 1900, alla Commissione, unitamente a quella per il Goriziano e per l’Istria, fu assegnato il primo premio, il Grand Prix.
La buona riuscita degli impianti precedenti aveva rafforzato la sicurezza nel provvedimento da usare:
1 – L’adozione della piantagione e non della seminazione.
2 – La primavera, come epoca adatta ai lavori.
3 – L’età delle piantine: due anni, alte circa 25 cm, con le radici nude.
4 – Erano state fissate anche le norme per lo spiantamento dall’orto, la conservazione delle pianticelle fino al momento della posa in opera, nonché quelle per la piantagione. Si parlò anche di annaffiature: da ricordare che solo nel 1908 le condutture dell’acqua erano arrivate a Basovizza.
5 – Fu deliberato che il sistema più economico e fruttuoso d’interramento era l’apertura di formelle, cioè di piccole conche di 30 cm di profondità e altrettanti di larghezza.
6 – Tale lavoro veniva svolto con il piccone da uomini cui seguiva la piantagione, eseguita da donne con le quali collaboravano dei ragazzi, soprattutto per la raccolta e il trasporto di terra dal fondo delle doline, là dove si accumulava, spazzata dal vento, terra indispensabile per ricoprire e premere le radici. Si regolò anche l’orario di lavoro e il salario.
7 – Si dichiarò necessaria l’integrazione successiva delle piante che non attecchivano.
8 – Si decise che il sottobosco di latifoglie doveva essere, in seguito, piantato o seminato, a seconda della posizione climatico-geomorfologica dei siti.
9 – Si confermò che tutte le suddette operazioni dovevano essere ripetute per almeno cinque anni, in quanto siccità, venti e insetti nocivi, vanificavano, talvolta quasi del tutto, il lavoro fatto, senza contare i danni provocati dall’uomo.
10 – Si stabilì sempre valida l’istituzione di guardaboschi, già richiesta fin dal 1866 e ottenuta nel 1871.
11 – Si considerò sempre importante la costruzione di muri di cinta a protezione dagli animali e da strade interne per raggiungere i luoghi di lavoro.
Anche queste pinete ricevettero un nome che onorava la memoria delle persone distintesi nell’opera di imboschimento. Esso fu scolpito su un cippo di calcare insieme alla data del primo impianto e a quella del Deliberato Commissionale circa l’imposizione del nome, oltre alla sigla F. I. (Fondo Imboschimento).
In conclusione ciò che inizialmente era stato pensato puramente per stimolo economico, divenne motivo di fierezza per se stesso, tanto da sentire la necessità di chiamarlo con nome proprio.
E’ dunque in questa chiave morale, affettuosa, storica, economica o come si voglia definirla, oltre a quell’ecologica, che, eredi e pronipoti, debbono interpretare il valore dei boschi da noi tuttora posseduti, tenendo anche conto di quelli che sono stati già sacrificati ad opere di pubblica utilità.