L2LV: I cacciatori di tunnel
L2LV: I CACCIATORI DI TUNNEL
Estate 2013. Solita telefonata di Gianni in cerca di qualcuno che lo accompagni in luoghi impervi e sconosciuti ai più, dove solo lui riesce a trovare grotte, e che per giunta continuano. “Mauro, cosa fai? Andiamo a fare un giro in Canin?” Risposta supponente: “Macché, c’è ancora troppa neve e i buchi sono ancora chiusi”. Replica indulgente: “No, ovvio. In Canin si, ma non in Canin Canin, in Canin Poiz”. Ovvero nella zona da lui scoperta nel 2012 alla ricerca di ingressi bassi del Complesso del Foran del Muss, dove la parte finale di molte grotte del Sistema, specie quelle a noi semisconosciute perché esplorate dai soliti perseveranti polacchi, arriva non troppo lontano dalla superficie esterna, attorno ai 1500 metri di quota. E zona interessante anche perché poco sotto, da Est, arrivano le condotte chilometriche di Rotule Spezzate. E l’idea di entrare da ingressi bassi, bypassando pozzi, spettacolari ma profondi, e meandri, di soddisfazione ma stretti, per finire a percorrere antiche e comode condotte ormai abbandonate dall’acqua non può dispiacere a chi ha ormai trascorso il mezzo secolo di vita. Ecco quindi che l’idea di un giro ricognitivo tranquillo in una zona nuova e ricca di promesse mi rende anche felice di prendere un giorno di ferie infrasettimanale.
Mercoledì 13 giugno: la ricognizione. Pronti al parcheggio del sentiero di Casere Goriuda con un programma alquanto vario e uno zaino non propriamente speleo. Muniti di cesoie e seghetti, io e Gianni saliamo velocemente per il sentiero CAI e poi lentamente per la nuova traccia su cui le slavine primaverili hanno fatto cadere alberetti e alberoni che ostacolano la progressione. Liberata il più possibile la strada, ancora agevolata nei traversi esposti da alcune corde fisse che nessuno ha ancora rubato, arriviamo quindi alla località “segreta” denominata in codice “A Ovest di Paperino”, dove si apre l’imbocco del meandrone nuovo di stecca che si inoltra all’interno del massiccio e dove l’anno prima ci eravamo fermati alla base di un saltino da risalire. Il secondo obiettivo, dopo l’opera di giardinaggio selvaggio, è invece verificare l’agibilità di L2LV, “vecchia” cavità ritrovata dopo tanti anni e discesa per una cinquantina di metri fino a un grande pozzo inesplorato. Arriviamo in una modesta radura tra i larici e non occorre che Gianni mi mostri l’ingresso perché una violenta corrente d’aria freddissima mi indica immantinente la fessura d’entrata meglio di un cartello stradale. C’è solo un po’ di neve ghiacciata che però non impedisce il passaggio e, anche se il contrasto di temperatura con l’esterno invita a tutto meno che a entrare, Gianni mi convince a indossare casco e tuta. “C…zzo, che freddo!”: è questo il pensiero dominante in questi primi stretti metri che percorro seguendo questo strano essere con cui condivido gioie e dolori speleologici da ormai quasi trent’anni. La frattura è costante, quasi tagliata con il laser; le pareti sono ruvidissime e pulitissime e di ciò sono felice perché, per risparmiare sul peso, sono in scarpe da ginnastica. Ecco il passaggio ostico da allargare: disteso orizzontale, Gianni comincia a spostare pietre sul fondo e a martellare le pareti, con il risultato che tutta la polvere mi arriva violentemente in faccia. Siccome non sono fesso, propongo di lavorare da ambedue le direzioni e, passando sopra il morbido Gianni, riesco a passare oltre a malapena riuscendo poi a scaldarmi a furia di mazzettate, affliggendo l’amico che ora, a sua volta fustigato dal vento che lo colpisce in faccia con la polvere da me alzata, mi guarda pentito dall’altra parte della strettoia. Fatto il nostro dovere (quel che basta per passare senza soffrire troppo), proseguiamo fino all’imbocco del primo pozzacchione da 40; gli armi in loco sono a posto e non si ode neppure un particolare stillicidio d’acqua. Soddisfatti per queste condizioni, usciamo rapidi a scaldarci le membra infreddolite sotto il sole estivo. Fine del primo round. Ci limitiamo a un giro ricognitivo fino alla conca superiore dove Gianni mi mostra l’ingresso del mitico polacco Loch Kosicy, abisso per lo più ignoto che segna il limite esplorativo raggiunto dagli amici dell’Est provenienti in discesa dal soprastante Bivacco Stefano Procopio, sito sulle alture del Foran del Muss. Non resistiamo ad effettuare un giro “light” anche in questo splendido e ampio meandro fino al primo salto. Iniziando la lunga discesa verso l’auto, io comincio già a pensare all’agriturismo Goriuda e alle sue prelibatezze. Quell’ingordo di Gianni, invece, continua ad indugiare su cenge e cengette finché scompare alla mia vista, per riapparire dopo poco con un sorriso che gli attraversa il viso da orecchia a orecchia. “Ciò, gavemo pescà el jolli: xè una condottina che tira un’aria de cagarse!”. Io, seduto su un comodo masso sulla cengia inferiore, annuisco rassegnato all’annuncio e continuo a pensare all’agriturismo, ritenendo questa nuova scoperta una delle innumerevoli condottine con cui il Benedetti perseguita da decenni i suoi compagni di avventura. Invece è il momento del concepimento di quella che diventerà poi la Grotta Clemente; ma questa è un’altra storia! E l’ennesima dimostrazione di come il “culo” attribuibile alle scoperte di Gianni sia del tutto immeritato. Vera invece la maledizione che gli impedisce di godere delle prelibatezze dell’Agriturismo Goriuda che troviamo desolatamente chiuso, essendo ancora fuori stagione e comunque a metà settimana. Poco male, stanchi e felici ci rifacciamo altrove.
Domenica 7 luglio: l’attacco. Dopo la sbornia esplorativa in Clemente di due settimane prima, passiamo dall’orizzontale al verticale. Questa volta manca Gianni, ma in compenso, oltre al sottoscritto, c’è Sandrin, l’uomo delle punte di qualità, ed Edo, il bastone della mia vecchiaia. Non abbiamo tanto materiale anche perché, secondo Sandrin, vista la quota dell’ingresso (ca 1500 metri) e la profondità finora raggiunta (una settantina di metri), le grandi condotte da raggiungere, ribattezzate “tunnel”, dovrebbero trovarsi poco sotto, per poi proiettarci in orizzontale ad esplorare nuovi mondi di facile percorribilità. A prescindere, lamentandomi per l’età, gli acciacchi e quant’altro, riesco a rifilare gran parte del materiale ai due giovinastri (che tanto giovani non sono … ma tutto è relativo), e così l’ardua salita fino alla conca del Poiz mi è più lieve del solito, anche se i passaggi più volte percorsi nell’ultimo periodo cominciano a diventarmi indigesti. Arrivati all’ingresso, ora del tutto sgombro da neve e ghiaccio, ma non della micidiale corrente d’aria freddissima, ci cambiamo con la calma al sole per poi arrivare il più velocemente possibile all’attacco del P40 e del successivo pozzacchione misterioso. Fin qui tutta la grotta è impostata su un’unica faglia orientata verso il Fontanon di Goriuda, ma si sa, sono tutte fantasie perverse di poveri speleo illusi. Avendo in squadra l’uomo delle punte di qualità, lasciamo a Sandrin l’onore/onere dell’armo, mentre io mi dedico volentieri al rilievo utilizzando Edo come traguardo topografico in movimento. Il pozzacchione è veramente super e, mentre il trapano risuona nell’enorme vuoto sottostante, ho modo di ammirare tra una battuta e l’altra la morfologia dell’ambiente e, soprattutto, la bellissima “gorna” incisa dall’acqua da cui i fix di Sandrin ci tengono ben lontani. A un certo punto la progressione si ferma e si odono solo i borbottii indistinti di Sandro; passa il tempo e comincio ad annotare sul quadernetto di rilievo il numero di ciottoli fermi sul terrazzino poco lontano. Continua a passare il tempo e vorrei gridare “Gamelaz de un Sandrin, come xè? Te se movi o no?”; ma, diamine, sotto c’è il “signor” Sandrin, mica uno qualunque. Di sicuro c’è qualche arduo problema che si sta accingendo a risolvere con la consueta bravura che lo ha sempre contraddistinto; inutile insistere. Il problema è che sotto Sandro, finita la corda del suo sacco e impaziente per il tempo che passa, vorrebbe gridare “Gamelaz de un Kraus, come xè? Te se movi o no a passarme el sacco con la corda?”; ma, diamine, sopra c’è il “signor” Kraus, mica uno qualunque. Di sicuro c’è qualche arduo problema che si sta accingendo a risolvere con la consueta bravura che lo ha sempre contraddistinto; inutile insistere. In mezzo c’è Edo che serafico continua ad ammirare le meravigliose morfologie di questo splendido pozzo. Passa così una buona mezz’ora fino a quando i due estremi, spazientiti e infreddoliti, sbottano all’unisono in un unico “Ciò, come xè? Te ga problemi?”. Chiarito l’equivoco, il sacco con le corde passa a Edo e quindi a Sandrin che riprende tosto a trapanare e raggiunge in breve il fondo del pozzo che si rivelerà essere profondo 130 metri. L’ambiente sotto è notevole e lo stillicidio abbonda; oltre alcuni massi la frattura imponente sprofonda in un altro salto che Sandrin stima in pochi metri. Edo però lo smentisce subito scaraventando nel vuoto un macigno che rimbomba in lontananza, parlandoci di almeno una cinquantina di metri, sicuramente “umidi”. Il problema è che in mezzo al biancore di una delle due pareti spicca inequivocabile un vecchio spit. E come c…zzo sono arrivati qui? Vuoi vedere che i precedenti esploratori hanno sceso la frattura a metà gallerie, da noi bypassata in alto con un facile traverso, e sono scesi per altra via tenendosi magari pericolosamente lungo la strada percorsa dall’acqua? Eh, altri tempi, tanto più senza trapano e fix. Mistero a parte, abbiamo ancora una ventina di metri di corda e non possiamo scendere il baratro che si para davanti ai nostri occhi, reso meno invitante da quello spit inopportuno che è per noi una pugnalata al cuore; altro che prima esplorazione! Guardando dalla parte opposta del pozzo, notiamo però un stretta finestra a una decina di metri dal fondo, raggiungibile con una facile arrampicata. Non appena nella finestra, veniamo investiti da una fredda corrente d’aria, segno inequivocabile di dove sia la vera prosecuzione. Rinfrancati e convinti di essere i primi, anche perché una volta si guardava sempre in basso tralasciando altre vie, proseguiamo in fila indiana percorrendo una quindicina di metri stretti, sempre impostati sulla medesima faglia che caratterizza tutta la cavità, fino a un pozzo che subito si allarga. Altro vecchio spit, singolo e piantato male, che testimonia comunque precedenti esplorazioni mai raccontate ad anima viva. Boh! Sandrin integra l’armo e scende nel vuoto fino alla fine della corda, trovando anche un vecchio chiodo da roccia. Il pozzo continua ampio e ancora per parecchi metri: spit o non spit, bisognerà comunque tornare per risolvere il mistero. Anche perché i mitici tunnel non possono essere poi troppo lontani … I frazionamenti numerosi rendono la risalita abbastanza tranquilla e così, senza materiali e senza particolari affanni, ce la facciamo ad uscire in tempo utile per tornare all’auto senza dover ricorrere alla luce dei caschi, anche se stare dietro ai due giovinastri mi costa non poca fatica, che vedrò di smaltire in ufficio. Alla prossima!
Domenica 14 luglio: la sorpresa. L’entusiasmo per la scoperta e per gli ambienti finora visti, nonché la curiosità per gli spit misteriosi, risultano più forti della stanchezza e della nausea che accompagna quella salita percorsa ormai troppe volte nell’ultimo periodo. Così, quando Sandrin mi telefona proponendomi l’ennesimo tour, non riesco a dire di no, anche se ginocchia e caviglie protestano a più non posso minacciando di ricorrere alla Corte Suprema per i Diritti delle Articolazioni. Questa volta siamo soli, senza Gianni e senza Edo; così, con l’incubo di essere di peso a quella bestia del mio compagno, stabilisco il record di salita posteggio-ingresso L2LV a dispetto di caldo e afa. Per Sandrin invece si tratta di una semplice passeggiata, ma, si sa, lui è di un altro pianeta! E, visto che è così, lascio all’extraterrestre il compito di proseguire armo ed esplorazione una volta che rapidi ci riaffacciamo sulla finestra dove ci eravamo fermati la settimana precedente. Il pozzo, di una settantina di metri, è a sua volta interessato da un certo stillicidio, al punto che a circa metà bisogna passare attraverso una fastidiosa cascatella. Poi un ponte naturale divide il pozzo in due, e lungo la via di discesa più logica, ovvero più asciutta, troviamo altri due spit. Alla base non ci sono gli auspicati tunnel, ma la solita faglia con la solita direzione (Goriuda o giù di lì) che immette su una lunga frattura che prosegue in profondità. Di spit non c’è traccia, ma non ci facciamo troppo affidamento: sono altri venti metri circa che obliquando ci portano più sotto, con qualche inizio di concrezionamento. L’aria è sempre molto forte, ma di tunnel nemmeno l’ombra; in compenso si comincia a sentire uno strano rumore, cupo, che mette un po’ d’ansia, anche perché siamo ormai a quella quota dove ad esempio Dobra Picka d’estate è soggetta a completi allagamenti. E la grotta che prosegue, sempre impostata su una stretta e ventosa frattura, non lascia immaginare rapide ritirate in caso di acque salienti. Dopo una quarantina di metri di stretti passaggi, si apre l’imbocco di un altro pozzo, gemello del precedente quanto a dimensioni e orientamento, anch’esso privo di qualsivoglia armo, naturale o artificiale. Che sia la volta buona che i nostri predecessori ci abbiano lasciato la strada libera? Pur inquieto per il rombo sempre più forte, tocca a me prendere il trapano e scendo obliquando per una ventina di metri con l’ultima corda, sognando questi benedetti tunnel. Arrivo però su un passaggio che mi sembra un po’ troppo stretto per le dimensioni della mia cassa toracica e così, sistematomi lateralmente, attendo l’extraterrestre che plana anche senza la sua piccola astronave e passa senza colpo ferire la strettoia, fermandosi cinque metri più sotto per mancanza corda. Dove? A una decina di metri dal fondo di un ampio meandro, o simil-galleria, dove scorre un torrente di notevole portata che colora di un verde profondo il buio sottostante. Ecco l’origine del rumore inquietante che ci aveva accompagnati in questi ultimi cento metri! Mancano solo 10 metri per appoggiare i piedi su un pavimento (o per finire a mollo, dipende) e scoprire quindi dove va, e da dove viene, questa quantità d’acqua decisamente anomala per gli abissi noti della zona. Il pensiero corre ovviamente al Fontanon di Goriuda che non è poi troppo lontano, ma, in assenza di dati certi, è inutile lasciarsi andare a voli pindarici (scopriremo a posteriori che mancano ancora soli 450 metri in linea d’aria e 200 di dislivello). Occorre rilevare quanto percorso ed è quello che ovviamente facciamo. La risalita è lunga e diventa pesante, specie quando, superate le difficoltà, Sandrin mi lascia al mio triste destino solitario involandosi all’uscita. Poi la lunga discesa, a buio ormai sceso sulla Val Raccolana, è una lenta agonia dove i crampi la fanno da padrone. Ormai esplorare in L2LV in giornata, partendo da Trieste, sta diventando una cosa da speleo veri, non adatta a quel vecchiaccio decrepito quale mi sento quando arrivo strisciando all’auto. E devo anche guidare fino a casa, e per di più senza cena, come si addice ai bambini cattivi!
A dispetto delle prospettive esplorative, il 2013 non ha visto più nessun speleo protagonista all’interno di questo importante abisso. La necessità di continuare le esplorazioni con condizioni meteo assolutamente sicure, gli incendi estivi in Val Raccolana e soprattutto l’esplosione speleologica in quel mondo di comode e sicure condotte che si sviluppano per chilometri solo cento metri più in alto, hanno fatto sì che l’attività venisse dirottata altrove. D’altra parte la fortissima e freddissima corrente d’aria uscente, la notevole quantità d’acqua solo sfiorata a quasi 350 metri di profondità (con conseguente mistero sul bacino di assorbimento e sulla direzione da essa seguita in discesa) e l’imponenza della faglia, visibile anche all’esterno e che la caratterizza dal primo all’ultimo metro, fanno di questa grotta un obiettivo che non si può lasciar cadere nel dimenticatoio, come già avvenuto quasi un quarto di secolo fa. Il problema, se di problema si può parlare, è che di lavoro ce n’è anche troppo, per il gruppo di amici, datati o meno, che hanno finora operato in zona. A dimostrazione di come la speleologia abbia ancora tanto da dare a chi è disposto a soffrire un minimo per essa.
Mauro Kraus
Partecipanti: Gianni Benedetti (GTS), Edoardo Gobet (GSSG), Mauro Kraus (GSSG) e Alessandro Mosetti (GTS).